Le Assurdità di Essere - Memento
Memento
Aprì gli occhi come tutte le mattine. Non
avrebbe mai potuto ricordare come li avesse aperti la mattina precedente, né
quante mattine erano già trascorse da quando li aveva aperti per la prima
volta. I colori vivaci che filtravano dalle tendine lo colmarono di una
inconscia felicità. La sua vita era priva di ricordi. Per lui, la parola
“tende” era solo un suono senza senso, così come le parole “luce”, “sole”, “amore”.
Come un viaggiatore che ignora la lingua
del paese straniero che lo ospita, Memento, questo il suo nome, percepiva voci
e suoni senza potervi mai associare un significato. Ogni volta che
un’automobile sfrecciava nella strada con un rombo assordante, Memento spalancava
terrorizzato gli occhi, incapace di comprendere la natura di quel violento
rumore. Per lui era sempre come se lo udisse per la prima volta.
Il suo destino era di non ricordare.
Trascorreva lunghi minuti ascoltando il silenzio o il caotico movimento della
via cittadina. Per lui non vi era differenza. Il tempo non era parte del suo
mondo. Tutto si traduceva in percezioni e sensazioni sempre nuove che la mente
non sapeva né interpretare né tantomeno archiviare. Memento non era in grado di
comunicare, se non attraverso istintivi movimenti degli arti e del volto che
nessuno tra coloro che lo assistevano avrebbe potuto mai interpretare. Ma era
vivo. Probabilmente non avrebbe potuto articolare il pensiero “Chi sono? Dove
mi trovo?” in quanto non ricordava alcuna lingua attraverso la quale formulare
a se stesso quel pensiero. Ma inconsciamente si sapeva vivo, vivo e partecipe
di quella realtà della quale percepiva l’esistenza grazie ai suoi sensi
perfettamente funzionanti.
Ricordo (perché io posso ricordare!) la
mattina in cui andai a fargli visita per la prima volta. Conoscevo bene le sue
condizioni ma nonostante fossi preparato a quell’incontro mi sentii impacciato,
titubante, come se vicino a me vi fosse qualche strana creatura aliena e non un
essere umano. Non potevo parlargli: sapevo che non avrebbe compreso il
significato delle mie parole. Gli appoggiai delicatamente una mano sulla testa
e subito i suoi occhi vennero a cercarmi. Un abbozzo di sorriso parve scolpire
le sue esili labbra.
«Memento.», sussurrai, ma nessun gesto
parve indicarmi che avesse compreso che Memento era il suo nome. Gettò lo
sguardo altrove, immediatamente dimenticandomi, per tornare a frugare in chissà
quale sua personale realtà. Sedetti poco distante da lui. Sebbene potesse
vedermi, sapevo che stava istintivamente ignorando la mia presenza. Provai a
immedesimarmi in lui, tentando di capire come sarebbe stata la mia vita se
anch’io, come Memento, non avessi avuto la facoltà di ricordare. Cosa si prova
a osservare il mondo senza essere in grado di dare un significato a ciò che
percepiamo?
Osservai la porta socchiusa: io so che
quella è una porta e che il suo scopo è di chiudere l’apertura che è dietro ma…
se non ricordassi né il nome né lo scopo per il quale la porta è stata
costruita, cosa vedrei? Vedrei una sagoma scura… no, solo una sagoma, perché il
chiaro e lo scuro sono due concetti che nascono nella mia mente grazie alla
comparazione e, non ricordando, non potrei fare alcun confronto per definire
chiaro o scuro un oggetto. Vedrei dunque solo una sagoma… rettangolare? No,
senza memoria la geometria non può esistere nella mente. Una sagoma dunque,
solo una sagoma: un’impressione che dalla retina percorre rapidamente il nervo
ottico per poi diffondersi nei meandri del cervello, senza un nome, né un colore,
né uno scopo.
Memento esiste. È qui, vivo, accanto a me.
Ma quale significato può assumere per lui la parola “esistenza”? Anch’io, come
lui, esisto. Anch’io, come lui, percepisco. La mia percezione però permane, non
sfuma via un attimo dopo. Io possiedo la facoltà della memoria, Memento no. Io
posso farmi un’idea, posso esprimere concetti, posso “pensare” utilizzando il
linguaggio che ho memorizzato da piccolo. Memento non può imparare nulla. Memento
non può farsi un’opinione perché nella sua mente non esiste la possibilità di
comparare le sensazioni trasmesse dai sensi con quanto accumulato nella
memoria. Memento non si domanda se ciò che osserva è buono o cattivo. Non è di
buon umore se fuori della finestra splende il sole, né è triste se è una
giornata piovosa. Tuttavia è vivo, vivo come lo sono io che invece ho la
possibilità di confrontare il mio presente con il mio passato e auspicarmi un
futuro bello come desidero.
Già, il desiderio! Cosa mai potrà
desiderare Memento se non ha ricordo di sofferenze da cancellare o di gioie da
replicare? Eppure è ancora lì, vicino a me, vivo come lo sono io. Se ci
scattassero una fotografia, l’uno vicino all’altro, nessuno potrebbe
distinguere chi dei due è privo di memoria. Perché una fotografia è
un’istantanea della realtà; è il qui e ora dove passato presente e futuro
perdono qualunque significato. Eppure io e Memento abbiamo una cosa in comune
che neppure l’assenza di memoria potrà mai separare: siamo entrambi vivi.
Entrambi esistiamo in un infinitesimale spicchio di universo ed entrambi non
possediamo una risposta certa al perché io e lui siamo qui, ora. La mia
coscienza, quella mia consapevolezza di esistere che Memento invece ignora, non
mi è d’aiuto per sentirmi molto diverso da lui. I pensieri proiettati sullo
schermo dei miei ricordi mi rappresentano una vita e un mondo molto diversi dai
suoi. Io fuggo via, proiettandomi all’esterno. Sono continuamente preda del mio
pensare, delle mie scelte, delle mie decisioni, dei miei desideri. Memento è
lì: vive, e basta!
Chi tra noi due vive la vita e chi invece
viene continuamente trascinato via dalla propria esistenza? Non posso
chiederglielo: Memento non possiede un pensiero suo, che gli permetta di
formulare una qualsivoglia risposta. Posso tentare di dare io quella risposta mancata,
per quanto la mia coscienza, la mia personalità, i miei condizionamenti e la
mia stessa capacità di ricordare me stesso mi rendano impossibile il rimanere
imparziale e distaccato, come invece è Memento.
Forse la vita vera è proprio la sua. Una
vita dove ciò che realmente conta è il fatto stesso di essere in esistenza e di
percepire, per chissà quale misterioso motivo, quell’ “io sono” che più che di
parole composte da suoni è una sensazione interiore di essere qualcosa di
diverso dal “nulla” e, al tempo stesso, di essere un tutt’uno con quel qualcosa
che vibra intorno. Probabilmente Memento percepisce solo e soltanto questo: la
sua unione con il “tutto” del quale non ha mai imparato a definire contorni,
confini e sfumature. Forse Memento percepisce l’esistenza come un qualcosa di
insieme: non alberi, auto, palazzi… montagne in lontananza, ma un unico immenso
quadro dipinto su una tela che fa da supporto infinito a tutto il colore in
movimento che danza sopra di essa. Senza memoria, Memento non può dare un nome
a quelle sfumature di colore che a me appaiono alberi. Non può estrapolare una
parte da tutto l’insieme.
Comprendo, infine, che io mi sento separato
grazie a questa mente che, scavando nella memoria, riesce a dare un nome a
tutto ciò che i sensi percepiscono, mentre Memento è lui stesso quel tutto che
io mi ostino a voler continuamente frammentare in pezzi sempre più piccoli e
insignificanti.
Cominciai a invidiare Memento. Quel suo non
capire la sua condizione era la comprensione ultima dell’inconoscibile, quella
comprensione che mi ostinavo, inutilmente, di ottenere attraverso la
separazione del me stesso dal tutto. “Non c’è nulla da comprendere” mi avrebbe
certamente detto Memento se avesse avuto la possibilità di parlarmi: “Tutto è
già qui e non si è mai mosso da qui”. Pensai che se Memento avesse avuto la
possibilità di pronunciarmi quelle parole, sicuramente non avrebbe potuto
pronunciarle comunque, in quanto sarebbe stato anche lui un essere umano
“normale” come me. E come me non avrebbe mai potuto comprendere. Lo salutai, semplicemente
alzando una mano, e uscii dalla stanza chiudendo dietro di me quella sagoma che
ancora mi ostino a chiamare “porta”.