Le Assurdità di Essere - Le Assurdità di Essere
Le Assurdità di Essere
Sua madre scelse di portare con sé nella
tomba quel segreto che aveva gelosamente custodito per tutta la vita, non
volendolo rivelare neppure a lui. Nessuno quindi seppe mai perché volle dare a
quel suo unico figlio maschio, nato quattro mesi dopo essere rimasta vedova, il
nome di Essere.
In paese tutti lo ricordavano già vecchio.
Nessuno ormai era più in grado di dire quando e da dove fosse arrivato. Tutti
lo consideravano lo scemo del villaggio e non perdevano mai occasione per
schernirlo, parafrasando il suo particolare nome:
«Ehi, Essere, chi diavolo sei oggi?»
«Essere o non Essere? Questo il dilemma!»
Brevi sprazzi di falsa lucidità lo
portavano a volte a rispondere a tono, con saggezza spicciola:
«Tu dici di essere Giovanni, tu invece dici
di essere Antonio… Io dico di Essere, e basta!»
Era come soffiare sul fuoco. La risposta
era lì, bell’e pronta:
«Ehi Essere, ma chi ti credi di essere?»
Tutti lo deridevano, in quel piccolo paese
di poche centinaia di anime. Tuttavia lo consideravano un tipo innocuo e le
chiacchere si esaurivano nel semplice commentare le sue assurde gesta.
Ripeteva i suoi rituali quotidiani fino
all’esasperazione, programmandoli in base alle condizioni del tempo, tant’è che
ai suoi compaesani era sufficiente aprire la finestra al mattino e guardare che
tempo facesse fuori per sapere con largo anticipo come Essere avrebbe trascorso
l’intera sua giornata.
Solo il sabato e la domenica Essere
sospendeva i suoi riti. Trascorreva l’intero weekend seduto sotto il portico,
intento a dipingere su vecchie tavole di legno intarlato recuperate qua e là,
girovagando tra vecchie baracche abbandonate.
Nessuno badava più a Essere. Nessuno si
domandava del perché di quelle sue rituali e ripetitive gesta. Ognuno era
impegnato nelle sue attività quotidiane e la presenza di Essere passava oramai
quasi del tutto inosservata.
Anche quel giorno, un giorno qualunque in
cui Essere era impegnato a compiere chissà quale rito, giunse la vecchia
corriera che faceva la spola quotidiana tra il paese e la città di vallata. Insieme
alle scorte alimentari necessarie per approvvigionare l’unico spaccio del
paese, quel giorno scese dalla corriera anche un bambino di circa dieci anni.
Era il nipote di una delle tante anziane vedove del paese, giunto a far visita
alla nonna con la quale avrebbe trascorso alcuni giorni di vacanza. Pure quella
infantile e inaspettata presenza parve però scivolare via dagli sguardi dei
più, che neppure si domandarono chi fosse quel bimbo e perché fosse giunto in
paese.
L’infantile curiosità del bimbo lo portò
presto a esplorare le poche e strette vie del paese, spingendosi ogni giorno
sempre più in là, fino ai primi campi coltivati. Fu lì che il piccolo ebbe il
suo primo incontro con Essere: lo notò chino sul terreno, intento a scavare
buche e a riempirle con del terriccio che prelevava dal suo sacco.
«Cosa stai seminando?»
«Non sto seminando un bel niente. Questo
sacco non contiene sementi.»
«Ma allora cosa contiene?»
«Terra! L’ho raccolta stamani nel bosco.»
«Vuoi dirmi che stai seminando la terra?»
«No, non la sto seminando. La sto
semplicemente interrando!»
Spinto da un crescendo di curiosità, il
bimbo insisté:
«Perché interri la terra nella terra? Che
senso ha?»
Palesemente infastidito da quella giovanile
voglia di sapere, Essere non pronunciò parola. Stizzito, caricò il sacco di
juta sulle spalle e si incamminò in direzione di un altro campo, là vicino,
dove riprese a scavare buche e a riempirle di terra.
L’indomani, una finissima ma insistente
pioggia aveva trasformato in rivoli le stradine del paese. Attraverso i vetri
appannati della finestra il ragazzo stava osservando annoiato la monotonia del
grigiore del cielo quando intravide la sagoma di Essere incamminarsi verso la
piazza del paese. Deciso a seguirlo, indossò la mantella impermeabile e uscì in
strada giusto in tempo per vedere Essere giungere alla fontanella e iniziare a
riempire fino all’orlo due vecchi fiaschi, di quelli rivestiti di una paglia
ormai ingiallita dal tempo. Si incamminò quindi verso il torrente e, salito sul
ponte, versò nell’acqua l’intero contenuto dei fiaschi. Ritornando sui suoi
passi, nuovamente diretto verso la fontana, incontrò il ragazzo che da lontano
aveva seguito ogni suo gesto.
«Cosa stai facendo?»
«Porto l’acqua al torrente.»
«E perché lo fai?»
«Perché no?»
«Ma è assurdo versare l’acqua in un
torrente, soprattutto in un giorno di pioggia come oggi, quando il torrente
riceve già tanta acqua che scende dal cielo e dalla montagna!»
Essere ancora una volta non rispose.
Terminò di riempire i suoi fiaschi e si diresse nuovamente verso il torrente.
Il giorno seguente la pioggia era cessata
ma il tempo rimaneva ancora incerto, con un vento fastidioso che sferzava la
campagna. Essere aprì l’anta della dispensa e impugnò il mantice che vi era
riposto. Uscì in strada. Seguendo un ritmo cadenzato, come durante una marcia,
a ogni passo che compiva premeva vigorosamente i manici del mantice, lasciando
che un forte soffio di aria fuoriuscisse dall’ugello con un lungo sibilo. Il
ragazzo ancora una volta era lì, ad attenderlo, cercando di capire quale strano
rituale stesse compiendo Essere.
«Oggi cosa stai facendo?»
«Non vedi? Sto soffiando l’aria con il
mantice.»
«Ma… con tutto questo vento? Che senso ha
soffiare aria nell’aria? L’aria si soffia per rinfrescarsi nelle giornate d’afa
estiva, quando non si muove una foglia. Oggi, con il vento che tira, che
giovamento puoi trarre dall’aria che stai soffiando?»
Senza mai fermarsi, Essere guardò il
ragazzo, quasi stupito per il fatto che non riuscisse a comprendere. Svoltò in
uno dei tanti vicoli del paese e scomparve dietro le case senza pronunciare
parola.
Il quarto giorno era finalmente tornato a
splendere il sole e il ragazzo decise di scendere in strada per giocare con i
numerosi gatti randagi che i paesani avevano adottato. Di lì a breve notò
Essere uscire dalla sua modesta casa tenendo in mano, rivolta ben alta verso il
cielo, una torcia accesa. Era una di quelle torce antivento fatte con juta
paraffinata, che possono ardere per ore prima che la fiamma si spenga.
«Cosa stai facendo con quella fiamma
accesa?»
«Sto illuminando e riscaldando la
giornata!»
«Ma dai! Che assurdità! Puoi farlo di
notte, forse, ma ora che splende il sole che differenza di luce e di calore
potrà mai fare la tua misera torcia?»
Essere parve non sentirlo. Con il braccio
teso il più possibile verso l’alto continuò a trasportare imperterrito la sua
torcia ardente e con passo spedito si allontanò.
Giunse il sabato. Il ragazzo scese in
strada di buon mattino e girò tutte le vie del paese sperando di incontrare
Essere, ma non riuscì a trovarlo. Deluso, rientrò a casa e domandò alla nonna
se l’avesse visto.
«Oggi e sabato», rispose la nonna, «il
sabato e la domenica Essere rimane sempre a casa, a dipingere.»
Il bimbo corse verso l’abitazione di Essere
e lo trovò seduto sotto il portico, intento a dipingere su alcune tavole di
legno.
«Ciao Essere, la nonna mi ha detto che ti
avrei trovato qui.»
«Ciao», rispose Essere senza alzare lo
sguardo dal pennello.
«Cosa stai dipingendo?»
«A te cosa sembra che stia dipingendo?»
«Sono figure umane… uomini, donne, bambini,
persone anziane… Sai che dipingi molto bene?»
«Si, lo so.»
«E poi cosa fai di questi dipinti? Li
vendi?»
«No, li cancello.»
«Li cancelli? Perché?»