Riflesso di me stessa ma identificata
in questo oggetto umano, in questo corpo-mente.
IO SONO la Coscienza, niente mi ha creata
poiché sono il Divino, sono la Sorgente.


Nan Yar?
Tat Tvam Asi!

"IO SONO CIO' PER CUI SO CHE IO SONO"

Meditare con la Poesia

Le Assurdità di Essere - Le Assurdità di Essere



 



“Le Assurdità di Essere” è una raccolta di racconti la cui pubblicazione è prevista nel corso del 2022. 


Le Assurdità di Essere

 

Sua madre scelse di portare con sé nella tomba quel segreto che aveva gelosamente custodito per tutta la vita, non volendolo rivelare neppure a lui. Nessuno quindi seppe mai perché volle dare a quel suo unico figlio maschio, nato quattro mesi dopo essere rimasta vedova, il nome di Essere.

In paese tutti lo ricordavano già vecchio. Nessuno ormai era più in grado di dire quando e da dove fosse arrivato. Tutti lo consideravano lo scemo del villaggio e non perdevano mai occasione per schernirlo, parafrasando il suo particolare nome:

«Ehi, Essere, chi diavolo sei oggi?»

«Essere o non Essere? Questo il dilemma!»

Brevi sprazzi di falsa lucidità lo portavano a volte a rispondere a tono, con saggezza spicciola:

«Tu dici di essere Giovanni, tu invece dici di essere Antonio… Io dico di Essere, e basta!»

Era come soffiare sul fuoco. La risposta era lì, bell’e pronta:

«Ehi Essere, ma chi ti credi di essere?»

 

Tutti lo deridevano, in quel piccolo paese di poche centinaia di anime. Tuttavia lo consideravano un tipo innocuo e le chiacchere si esaurivano nel semplice commentare le sue assurde gesta.

Ripeteva i suoi rituali quotidiani fino all’esasperazione, programmandoli in base alle condizioni del tempo, tant’è che ai suoi compaesani era sufficiente aprire la finestra al mattino e guardare che tempo facesse fuori per sapere con largo anticipo come Essere avrebbe trascorso l’intera sua giornata.

Solo il sabato e la domenica Essere sospendeva i suoi riti. Trascorreva l’intero weekend seduto sotto il portico, intento a dipingere su vecchie tavole di legno intarlato recuperate qua e là, girovagando tra vecchie baracche abbandonate.

Nessuno badava più a Essere. Nessuno si domandava del perché di quelle sue rituali e ripetitive gesta. Ognuno era impegnato nelle sue attività quotidiane e la presenza di Essere passava oramai quasi del tutto inosservata.

 

Anche quel giorno, un giorno qualunque in cui Essere era impegnato a compiere chissà quale rito, giunse la vecchia corriera che faceva la spola quotidiana tra il paese e la città di vallata. Insieme alle scorte alimentari necessarie per approvvigionare l’unico spaccio del paese, quel giorno scese dalla corriera anche un bambino di circa dieci anni. Era il nipote di una delle tante anziane vedove del paese, giunto a far visita alla nonna con la quale avrebbe trascorso alcuni giorni di vacanza. Pure quella infantile e inaspettata presenza parve però scivolare via dagli sguardi dei più, che neppure si domandarono chi fosse quel bimbo e perché fosse giunto in paese.

 

L’infantile curiosità del bimbo lo portò presto a esplorare le poche e strette vie del paese, spingendosi ogni giorno sempre più in là, fino ai primi campi coltivati. Fu lì che il piccolo ebbe il suo primo incontro con Essere: lo notò chino sul terreno, intento a scavare buche e a riempirle con del terriccio che prelevava dal suo sacco.

«Cosa stai seminando?»

«Non sto seminando un bel niente. Questo sacco non contiene sementi.»

«Ma allora cosa contiene?»

«Terra! L’ho raccolta stamani nel bosco.»

«Vuoi dirmi che stai seminando la terra?»

«No, non la sto seminando. La sto semplicemente interrando!»

Spinto da un crescendo di curiosità, il bimbo insisté:

«Perché interri la terra nella terra? Che senso ha?»

 

Palesemente infastidito da quella giovanile voglia di sapere, Essere non pronunciò parola. Stizzito, caricò il sacco di juta sulle spalle e si incamminò in direzione di un altro campo, là vicino, dove riprese a scavare buche e a riempirle di terra.

 

L’indomani, una finissima ma insistente pioggia aveva trasformato in rivoli le stradine del paese. Attraverso i vetri appannati della finestra il ragazzo stava osservando annoiato la monotonia del grigiore del cielo quando intravide la sagoma di Essere incamminarsi verso la piazza del paese. Deciso a seguirlo, indossò la mantella impermeabile e uscì in strada giusto in tempo per vedere Essere giungere alla fontanella e iniziare a riempire fino all’orlo due vecchi fiaschi, di quelli rivestiti di una paglia ormai ingiallita dal tempo. Si incamminò quindi verso il torrente e, salito sul ponte, versò nell’acqua l’intero contenuto dei fiaschi. Ritornando sui suoi passi, nuovamente diretto verso la fontana, incontrò il ragazzo che da lontano aveva seguito ogni suo gesto.

«Cosa stai facendo?»

«Porto l’acqua al torrente.»

«E perché lo fai?»

«Perché no?»

«Ma è assurdo versare l’acqua in un torrente, soprattutto in un giorno di pioggia come oggi, quando il torrente riceve già tanta acqua che scende dal cielo e dalla montagna!»

Essere ancora una volta non rispose. Terminò di riempire i suoi fiaschi e si diresse nuovamente verso il torrente.

 

Il giorno seguente la pioggia era cessata ma il tempo rimaneva ancora incerto, con un vento fastidioso che sferzava la campagna. Essere aprì l’anta della dispensa e impugnò il mantice che vi era riposto. Uscì in strada. Seguendo un ritmo cadenzato, come durante una marcia, a ogni passo che compiva premeva vigorosamente i manici del mantice, lasciando che un forte soffio di aria fuoriuscisse dall’ugello con un lungo sibilo. Il ragazzo ancora una volta era lì, ad attenderlo, cercando di capire quale strano rituale stesse compiendo Essere.

«Oggi cosa stai facendo?»

«Non vedi? Sto soffiando l’aria con il mantice.»

«Ma… con tutto questo vento? Che senso ha soffiare aria nell’aria? L’aria si soffia per rinfrescarsi nelle giornate d’afa estiva, quando non si muove una foglia. Oggi, con il vento che tira, che giovamento puoi trarre dall’aria che stai soffiando?»

Senza mai fermarsi, Essere guardò il ragazzo, quasi stupito per il fatto che non riuscisse a comprendere. Svoltò in uno dei tanti vicoli del paese e scomparve dietro le case senza pronunciare parola.

 

Il quarto giorno era finalmente tornato a splendere il sole e il ragazzo decise di scendere in strada per giocare con i numerosi gatti randagi che i paesani avevano adottato. Di lì a breve notò Essere uscire dalla sua modesta casa tenendo in mano, rivolta ben alta verso il cielo, una torcia accesa. Era una di quelle torce antivento fatte con juta paraffinata, che possono ardere per ore prima che la fiamma si spenga.

«Cosa stai facendo con quella fiamma accesa?»

«Sto illuminando e riscaldando la giornata!»

«Ma dai! Che assurdità! Puoi farlo di notte, forse, ma ora che splende il sole che differenza di luce e di calore potrà mai fare la tua misera torcia?»

Essere parve non sentirlo. Con il braccio teso il più possibile verso l’alto continuò a trasportare imperterrito la sua torcia ardente e con passo spedito si allontanò.

 

Giunse il sabato. Il ragazzo scese in strada di buon mattino e girò tutte le vie del paese sperando di incontrare Essere, ma non riuscì a trovarlo. Deluso, rientrò a casa e domandò alla nonna se l’avesse visto.

«Oggi e sabato», rispose la nonna, «il sabato e la domenica Essere rimane sempre a casa, a dipingere.»

Il bimbo corse verso l’abitazione di Essere e lo trovò seduto sotto il portico, intento a dipingere su alcune tavole di legno.

«Ciao Essere, la nonna mi ha detto che ti avrei trovato qui.»

«Ciao», rispose Essere senza alzare lo sguardo dal pennello.

«Cosa stai dipingendo?»

«A te cosa sembra che stia dipingendo?»

«Sono figure umane… uomini, donne, bambini, persone anziane… Sai che dipingi molto bene?»

«Si, lo so.»

«E poi cosa fai di questi dipinti? Li vendi?»

«No, li cancello.»

«Li cancelli? Perché?»

«Questa casa è troppo piccola…